GABRIELA GALATI

Patrizia Posillipo, Africa del Nord: L’artista come flâneuse

Africa del Nord di Patrizia Posillipo (2016) è un progetto fotografico sviluppato in Marocco. L’artista ha viaggiato per tutto il paese partendo dalla città imperiale di Fez, alla città rosa di Marrakech, fino a Essaouira.

Le opere rivelano un interesse ad apprendere la cultura dei diversi luoghi su differenti scale e livelli: comunità, individui, architetture, luoghi, oggetti quotidiani e anche punti  storici di rilevo. Nonostante un approccio rispettoso, quasi di apparente distacco, è evidente come ogni scatto lasci trasparire il fascino e l’ammirazione provati dall’artista.

Tuttavia la lettura con cui mi sono imbattuta più volte, dell’approccio di Patrizia all’Africa del Nord in termini di ricerca antropologica non mi ha mai davvero convinto. Poi ho ricordato e capito perché: la critica di questo “atteggiamento artistico” nel breve ma famoso capitolo di Hal Foster “L’artista come etnografo”[1] mi è tornata in mente. In esso, l’autore espone una critica acuta a una tendenza attuale nel campo artistico di percepire l’altro culturale – e in effetti, l’alterità è l’oggetto di studio dell’antropologia – come il luogo della trasformazione politica e da lì della trasformazione artistica. Ciò nonostante, in questa “svolta etnografica” (ethnographic turn) è sempre presente il pericolo del paternalismo ideologico. Ciò che è ancora peggio è il rischio che “l’artista, il critico o lo storico [proiettino] la loro pratica sul campo dell’altro, dove viene letto non solo come autenticamente indigena ma anche come innovatore politico!”[2]. Quindi il motivo per cui la lettura del progetto come approccio antropologico alla cultura marocchina non mi ha mai convinto è perché in realtà non c’è e quindi non corre nessuno di questi rischi, né da un punto di vista fenomenologico, né riguardo alle intenzioni dell’artista.

Osservando le opere questo diventa evidente: ad esempio, nell’Ultima Cena raffigura un gruppo numeroso di persone, forse una famiglia, che mangia su un lungo tavolo all’aperto, in un ristorante umile e molto affollato. L’artista ha tenuto le distanze  e la maggior parte dei ritratti sembra inconsapevole della sua presenza, concentrati come sono sulle loro diverse attività. Invece di un semplice momento della vita quotidiana, in Al Mallah il soggetto rappresentato ha una grande rilevanza storica e simbolica. Al Mallah è il cimitero ebraico di Fez, situato nella Medina, tra le sue mura, nel vecchio quartiere ebraico. Una parte dell’immagine sembra quasi astratta: in essa è possibile vedere un’estensione di tombe bianche con coperchi a volta completamente circondate dalle case un tempo abitate dal popolo ebraico, oggi dai marocchini. In questo modo il cimitero rimane nascosto e impossibile da vedere dall’esterno. Questo luogo sembra evocativo e testimone di una pacifica convivenza di ebrei e musulmani che è durata per molti anni. Oppure Gioco, scattata a Jemma el-Fna (che significa “assemblea dei morti”), la piazza che ha preso il nome dalle esecuzioni pubbliche che hanno avuto luogo lì dall’anno 1050 circa. Possiamo vedere uomini scommettere, e mentre sono concentrati sui numeri, l’imbonitore, con uno sguardo penetrante, fa gesti con la mano per esprimere il dissenso. Sta guardando direttamente la fotocamera, così come il bambino sul lato destro della composizione, così vicino all’obiettivo che è leggermente sfocato.

In effetti, esiste un concetto migliore per comprendere l’approccio di Africa del Nord, ed è la definizione di flâneuse di Lauren Elkin. Elkin ha creato questo neologismo per essere in grado di declinare la parola flâneur al genere femminile. La parola flâneur è stata menzionata per la prima volta nel 1585, ma si diffonde con la concezione di Baudelaire del flâneur come “l’artista che cerca rifugio nella folla”.

È importante sottolineare che la concezione piuttosto elitaria del flâneur come un dandy che non ha niente da fare e semplicemente vaga non rientra nella accezione femminile. Elkin pensa alla flâneuse come a una donna che si appropria delle città e dei luoghi in cui cammina attraverso l’attività stessa di camminare, guardandosi intorno e perdendosi per poi riscoprire la sua strada. Passeggiare da sole in una città per una donna non è mai stato facile, o addirittura possibile, e questo si rifletteva nella lingua, che in realtà non aveva una parola per un’eventuale versione femminile del flâneur. Quindi la versione femminile ha quasi una valenza politica, è una affermazione.

Il progetto di Patrizia è influenzato dallo spirito della flâneuse: il suo sguardo attraverso il dispositivo fotografico non rivela alcun tipo di paternalismo culturale, come avverte Foster, piuttosto raffigura i luoghi e le persone in modo incisivo ma gioioso e il modo in cui un’artista li fa suoi.

di Gabriela Galati